Il sovrano svevo si abbandonava spesso a “riunioni conviviali”. Non ricche abbuffate, ma cene raffinate a cui partecipavano musicisti, scrittori, maestri di fabbrica.
Durante i banchetti si discuteva di poesia, arte e musica.
Sulla tavola, si trovava spesso della selvaggina allo spiedo: in particolare lepri e allodole.
Il cinghiale, allora abbondante, non costituiva uno dei piatti preferiti di Federico II, che apprezzava invece i volatili, come fagiani, falchi, o i colombi coperti di miele e passati alla brace con erbe aromatiche.
Non mancavano anche il pesce, i funghi e i formaggi, accompagnati dall’antesignano del pane: piccole forme biscottate fatte con fiore, latte, miele, burro e cotte in forni a legna.
Come frutta, in epoca sveva, si usava mangiare fichi, noci, uva, datteri, mele, pere e meloni.
Federico II amava circondarsi in varie e frequenti occasioni di strumentisti e cantori: nei suoi castelli risuonavano gli antichi versi della scuola poetica siciliana e le note della lirica musicale trobadorica, che fioriva in Europa nel Basso Medioevo.
I troubadores, “trovatori”, dalla Provenza si diffusero infatti a macchia d’olio anche nel Regno di Sicilia, autori di componimenti monodici, ovvero a una sola voce, i cui testi avevano per argomento principale i temi di cavalleria e dell’amor cortese. L’offerta musicale a disposizione della corte doveva essere quanto mai varia, così come molteplici erano gli orizzonti culturali scrutati dallo sguardo curioso di Federico II. Tra gli strumenti utilizzati comparivano anche le trombe e il liuto “arabo”. Quest’ultimo strumento richiama l’attenzione sull’aspetto esotico della musica presso la corte di Federico II.
Oltre ad essere deliziosi, i banchetti alla corte federiciana erano anche profumatissimi!
Tra agli aromi mediterranei della Sicilia, come il basilico, la menta, la salvia e il prezzemolo, in tavola non mancava mai il vino, spesso aromatizzato con mirto dei Nebrodi e sempre servito in coppe preziose e decorate.
Il sovrano, prima di sorseggiare la bevanda, soleva annusarne l’odore, come fanno i moderni sommelier, per percepirne gli aromi e la qualità che variavano in base all’origine geografica.